Dina Tokio è una Youtuber, un fenomeno per la verità. Lo scorso novembre ha presentato in anteprima il suo progetto documentario #YourAverageMuslim, una serie in quattro parti di Creators for Change prodotta da YouTube.
Questo documentario è un primo esempio del significativo attivismo digitale femminista intrapreso dalle donne musulmane contemporanee.
#YourAverageMuslim evidenzia la vita di tre donne musulmane in Europa: Dalya Mlouk, Emine e Sofia Buncy.
Dalya Mlouk è la prima donna al mondo hijabi power-lifter, una disciplina sportiva nella quale ogni singolo atleta è impegnato nell’esecuzione di tre esercizi: lo squat, la distensione su panca piana e lo stacco da terra (deadlifting). Ed è proprio in quest’ultima che Dalya ha infranto il record mondiale nella sua fascia di età e peso.
La ballerina hip-hop tedesca Emine domina il mondo underground hip hop di Berlino, ed è la prima insegnante di danza hijabi in Europa a possedere anche la sua scuola di danza.
Sofia Buncy si distingue dalle altre donne, in quanto non indossa l’hijab, ma lavora principalmente in un’area trascurata del lavoro sociale, occupandosi dei bisogni delle donne musulmane nelle carceri.
Scopo del documentario non è evidenziare quanto siano eccezionali queste donne, piuttosto la sua priorità è di normalizzare l’idea che la donna media musulmana possa provenire da ambienti diversi ed avere successo, talento e determinazione tali da riuscire a vivere la sua vita nel modo che ritiene più congeniale.
Per secoli, le donne musulmane sono state soggette ad uno sguardo che le dipinge come vittime esotiche, velate e oppresse in varie rappresentazioni visive e scritte. Queste raffigurazioni hanno largamente modellato le esperienze delle donne musulmane medie, che devono confrontarsi costantemente con gli stereotipi del pubblico come vittime della loro cultura e religione.
Per combattere questi stereotipi ed evidenziare nuove prospettive verso un pubblico più ampio queste donne utilizzano le piattaforme online per realizzare documentari come #YourAverageMuslim e video musicali come Somewhere in America #Mipsterz, entrambi hanno ricevuto milioni di visualizzazioni online.
Il destino della condizione della donna rimane legato alla situazione politica dei paesi islamici in cui vive. L’Islam si plasma sulla pelle della sensibilità e del carattere nazionale dei popoli che vi aderiscono; oggi si contano un miliardo e mezzo nel mondo: dai Balcani all’Indonesia, dal Marocco all’Arabia Saudita.
Per questa ragione è difficile affermare e generalizzare che “tutte le donne musulmane vivono una condizione subalterna”, come vorrebbe la vulgata giornalistica di ieri e di oggi. Una ragazza di Sarajevo ha una storia e dei diritti civili diversi da una giovane di Istanbul o di Riad. Affermare la subalternità femminile si scontrerebbe inoltre con un’altra realtà: alcuni paesi a maggioranza islamica hanno avuto capi di stato e di governo donne, fenomeni politici molto importanti: Benazir Bhutto in Pakistan, Mame Boye Madior in Senegal, Tansu Ciller in Turchia, Kaqusha Jashari in Kosovo, Megawati Sukarnoputri in Indonesia, Khaleda Zia e Sheikh Hasina in Bangladesh.
I processi di emancipazione femminile passano da nuovi modelli culturali che i social amplificano: forniscono una voce alle donne attraverso strumenti che permettono loro di esprimere la propria opinione in maniera diretta e veloce.
Sulle conseguenze a cui si giungerà per la piena autonomia di queste donne il dibattito è aperto.