L’Africa ha rappresentato da sempre una grande attrattiva nei miei studi di sociologia del turismo, in particolare dopo la folgorante conoscenza della cosmogonia dei Dogon, un popolo del Mali, le cui origini e storie controverse sulle notevoli capacità astronomiche hanno posto le basi per scritti successivi relativi alle caratteristiche sociali dei popoli antichi.
Ci si interroga ancora infatti sulla cosmologia raccontata da Marcel Griaule nel suo libro “Dio d’acqua”, un punto di partenza per capire la vita sociale, economica, rituale e sessuale dei Dogon, ed i colloqui che portarono all’incontro e alla successiva amicizia con il saggio Ogotemméli.
La storia di Jimmy Moxon non poteva dunque che cogliere positivamente quel peculiare aspetto di trasmissione della conoscenza che popolazioni ricche di saperi antichi suscitano da sempre nell’immaginario collettivo.
(Credit Photo: Rex)
Jimmy era di fatto un inglese bianco che trascorreva metà dell’anno come impiegato statale in pensione nel suo cottage dal tetto di paglia vicino a Ludlow in Inghilterra e l’altra metà come un capo di Akan “completamente decorato” sulle colline di Aburi nel sud del Ghana.
E’ morto nel 1999 e si può vedere il piccolo santuario a lui dedicato all’ombra dell’albero di cotone di seta che gli ha dato il suo nome tribale. Sotto una testa di bronzo si può oggi vedere una semplice targa che recita “un figlio leale dell’impero e un vero figlio del Ghana”.
Aveva conquistato l’adorazione del paese come funzionario civile britannico durante la seconda guerra mondiale quando visitò personalmente gli agricoltori, incoraggiandoli a passare dal cacao alle colture alimentari, una decisione che salvò innumerevoli vite.
A Jimmy servirono moltissimo le sue abilità diplomatiche, ma rappresentano anche una metafora del modo in cui il Ghana ha attraversato il suo percorso post-coloniale.
Oggi gli autobus turistici sono pieni di persone che esplorano le lacune nelle loro storie di famiglia. Sempre di più infatti sono i neri americani che seguono il viaggio dei loro antenati asserviti, effettuandolo al contrario: attraversando quello stesso oceano che per i loro avi ha rappresentato un viaggio terrificante e tormentato senza ritorno, per raggiungere le foreste illuminate dal sole di mogano ed ebano, i campi di ananas e cacao e le pianure di acacia ed erbe selvatiche.
Il Ghana oggi sta cercando di raccogliere consensi, mostrando le sue cicatrici al mondo. I forti coloniali bianchi disseminati lungo la costa, ora Patrimonio dell’Umanità, sono tutti macchiati dalla vergogna del genocidio. Nel Castello di Elmina sono ancora ben visibili i segni graffiati degli schiavi che contarono i giorni fino a quando cedettero agli stenti.
L’eredità del colonialismo è intrisa della patina di questa terra. I missionari venuti per salvare le anime africane hanno trasformato il Ghana in un paese che crede fermamente nei miracoli. Le imprese proclamano la loro fede dai cartelloni pubblicitari: “Con i materiali da costruzione di sua grazia“, “Parrucche misericordiose“, “Il dio è nel controllo del parabrezza”.
Catherine Afeku, ministro del turismo del Ghana ha piani ambiziosi per trasformare l’industria turistica del paese, per incoraggiare le persone a vederla come una destinazione turistica, per “tornare a casa” o per chi desidera avventurarsi in una terra dove l’accoglienza è calorosa. Dalle sue pagine social emerge l’ottimismo di chi vuole fare qualcosa di concreto per il proprio paese, impegnandosi per migliorarlo.
In barba a qualsiasi impoverimento culturale che trova nelle distanze e nel conflitto la sua vocazione, c’è un antico filo che lega gli uomini e le loro storie, a cavallo tra misticismo, ricerca di radici e contaminazioni sociali.