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Resilienza

Resilienza: il metodo Garmezy e il ragazzo con il panino

by Rossella Guido
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La resilienza è la capacità di far fronte ad eventi traumatici o situazioni stressanti, trasformandoli in un’occasione positiva di crescita e cambiamento.

GarmezyPioniere della ricerca sul rischio e la resilienza è Norman Garmezy,  morto a Nashville, nel Tennessee, il 21 novembre 2009, all’età di 91 anni. Era un mentore leggendario e un eminente scienziato in psicologia clinica, presso l’Università del Minnesota.

Nato a New York ma cresciuto nel Bronx in un quartiere ebraico, ha sviluppato sin da adolescente una sensibilità verso questo tema che lo accompagnerà per tutta la vita, trasformando la pratica di diverse discipline in un approccio integrato basato su psicologia, educazione, lavoro sociale e psichiatria.

Le sue idee e ricerche gli valsero riconoscimenti internazionali nel corso della sua carriera.

Ha proposto la resilienza come paradigma per guidare la comprensione di come le persone possono trascendere le avversità e continuare a vivere una vita sana e produttiva. Tutti gli studi condotti dopo di lui portano a conclusioni simili: la resilienza non è una cosa ma un processo, e che la propria percezione è la chiave: concettualizzi un evento come traumatico o come un’opportunità per imparare e crescere?

Naturalmente se sei abbastanza fortunato da non provare mai alcuna avversità, non sapremo quanto sei resiliente. È solo quando ci si trova di fronte a ostacoli, stress e altre minacce ambientali che l’elasticità o la mancanza di essa emerge.

Garmezy ha incontrato migliaia di bambini nei suoi quattro decenni di ricerca ma uno in particolare ricorreva nei suoi racconti: aveva nove anni, con una madre alcolizzata e un padre assente. Ogni giorno il bambino arrivava a scuola con lo stesso identico panino: due fette di pane senza niente in mezzo. A casa non c’era altro cibo disponibile, e nessuno ne preparava, in questo modo diceva Garmezy, il ragazzo voleva assicurarsi che “nessuno avrebbe avuto pietà di lui e nessuno avrebbe conosciuto l’inettitudine di sua madre”. Ogni giorno camminava con un sorriso stampato sul volto e un “panino al pane” nascosto nella sua borsa.
Il ragazzo con il panino al pane faceva parte di una coorte di bambini – il primo di molti – che Garmezy avrebbe identificato come di successo, persino eccellente, nonostante le circostanze incredibilmente difficili. Questi erano i bambini che mostravano un tratto che Garmezy avrebbe in seguito identificato come “resilienza”. Per molti anni, visitò scuole in tutti gli Stati Uniti, concentrandosi su quelle in aree economicamente depresse e seguono un protocollo standard.

Il suo metodo in particolare consisteva in una serie di incontri con il preside, insieme a un assistente sociale scolastico o un’infermiera, dove poneva la stessa domanda: c’erano dei bambini che inizialmente sembravano problematici ma che invece erano diventati, sorprendentemente, una fonte di orgoglio?

Le risposte non erano affatto immediate perchè stava chiedendo di identificare i bambini stressati e come si comportassero a scuola; se avesse chiesto: “Ci sono bambini in questa scuola che sembrano turbati?” le risposte sarebbero state molto più semplici, ma per trovare bambini adattivi usciti da ambienti di forte disagio era necessario un approccio totalmente differente, un nuovo tipo di indagine.

Prima del lavoro di Garmezy sulla resilienza, la maggior parte delle ricerche sul trauma e gli eventi di vita negativi avevano un focus inverso. Invece di esaminare le aree di forza, ha esaminato le aree di vulnerabilità, indagando sulle esperienze che rendono le persone suscettibili o che portano i bambini a essere “turbati”.

Il suo lavoro ha aperto le porte allo studio degli elementi del background o della personalità di un individuo che potrebbero consentire il successo nonostante le sfide che hanno dovuto affrontare.

Garmezy si ritirò dalla ricerca prima di giungere a conclusioni definitive – la sua carriera fu interrotta dall’esordio precoce dell’Alzheimer – ma i suoi studenti e seguaci furono in grado di identificare elementi che si dividevano in due gruppi: fattori individuali psicologici, e fattori esterni ambientali.

Le minacce ambientali possono esistere in varie forme: alcune per esempio sono il risultato di una bassa condizione socioeconomica o di condizioni familiari sfidanti che non dipendono dalla situazione economica, come genitori con problemi psicologici o di altro tipo, esposizione alla violenza o maltrattamenti. Altre minacce sono acute: sperimentare o assistere a un evento violento traumatico, ad esempio, o assistere ad un incidente. Ciò che conta è l’intensità e la durata del fattore di stress. Lo stress derivante dalle avversità croniche, scrisse Garmezy, potrebbe essere inferiore, ma “esercita un impatto ripetuto e cumulativo sulle risorse e sull’adattamento e persiste per molti mesi e in genere considerevolmente più a lungo”.

In un saggio intitolato “The Profound Emptiness of Resilience“, il New York Times ha sottolineato che la parola è ora usata ovunque, spesso in modi che la svuotano di significato e la collegano a concetti vaghi. E’diventata un’ossessione tra i genitori della classe media che vogliono preparare i propri figli a resistere in un mondo che non sempre li favorirà. La grinta, una cugina stretta della resilienza è emersa come il mantra magico dell’istruzione.

Tuttavia non tutto si può porre esclusivamente a carico del carattere di una persona, lo scienziato sociale Alfie Kohn ha sostenuto infatti che “Più ci concentriamo sul fatto che le persone abbiano o manchino di persistenza (o autodisciplina più in generale), meno è probabile che saremo in grado di mettere in discussione politiche più ampie”.

Garmezy amava il teatro e la politica, coniugava la ricerca delle radici della resilienza a soluzioni che fossero nel contempo utili e che oggi è necessario richiamare nel dibattito sociologico, è questa la sua eredità.

Il suo lavoro continua ad ispirare intere generazioni nei loro sforzi per comprendere e promuovere la capacità umana di competenza e resilienza.

 

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